John
Blackbone entrò nello studio di Burton e si sedette. Il Console notò
subito l’espressione tesa e preoccupata del suo
segretario.
“Notizie
da Henriette e i bambini?” chiese, sperando in una risposta che
confermasse che stavano tutti bene.
John
fece scivolare un involto di carta sulla scrivania fin sotto il naso
del Console. Burton lo aprì: c’erano due buste. Una conteneva un
telegramma, l’altra una lettera.
“Ho
ricevuto tutto un’ora fa” precisò Blackbone. La posta, infatti,
gli veniva recapitata una volta al mese.
Burton
non mosse un muscolo e lesse il telegramma spedito da Nora tre
settimane prima, pressappoco alla fine di luglio: Situazione
grave. Stop. Urgente tuo arrivo. Stop. Bambini bene. Stop.
Il
Console aggrottò le sopracciglia. Strano, pensò, se le cose sono
gravi come mai la moglie non ha scritto nulla? La lettera, anche
quella inviata da Nora, del resto aveva un tono completamente diverso
rispetto al telegramma.
Caro
John,
per
prima cosa desidero scusarmi con te per il telegramma. Ti sarai
preoccupato e per questo motivo ti scrivo una lettera, così
da spiegarti per esteso cosa è successo e riportarti alla
tranquillità. Sappi comunque che qui stiamo tutti bene e
aspettiamo con gioia il tuo arrivo. La casa ha uno splendido
giardino, ammirato dai vicini e dai conoscenti, tanto che si
parla in giro di questo “giardino dei Blackbone” come di una
piccola oasi nel cuore di Trieste… ma ritorniamo a noi e alla
faccenda del telegramma.
Come
avrai notato tra quello e la lettera è passata una settimana e
ciò perché in quei giorni sono riuscita a rivedere le cose
nella giusta prospettiva. Credo di essere stata vittima della
stanchezza e dei notevoli cambiamenti ai quali il mio sistema
nervoso ha dovuto far fronte in questi ultimi due mesi. Due
donne sole in una città sconosciuta dove solo pochi parlano
la nostra lingua (va un po’ meglio a Henriette, il francese
lo conoscono già più dell’inglese, ma la maggior parte
della gente qui parla uno strano dialetto oppure lo slavo o il
tedesco…), insomma stavo dicendo, due donne sole possono trovarsi
in qualche difficoltà. Per molte notti ho dormito poco
e mi sono lasciata impressionare troppo da alcuni fatti di
cronaca locale: omicidi, stupri e altre nefandezze sembra che
qui siano tristemente frequenti nell’ultimo periodo. Nessuno
sa perché, ma è così. E questo mi ha turbata tanto che due
sere prima che ti spedissi il fatidico telegramma, ho creduto che in
casa ci fossero i ladri. Qui non siamo al sicuro, mi sono
detta. Questa città è troppo pericolosa per noi e per i
bambini. Forse la nostra partenza anticipata rispetto alla tua
non è stata la scelta migliore… Insomma, mi sono sentita
sola e avrei pagato tutto l’oro del mondo per averti con
noi. Così ho pensato che avresti potuto raggiungerci un po’
prima e… che il modo migliore per convincerti a farlo fosse
scriverti quella cosa.
Caro
fratello, appena inviato il telegramma mi sono resa conto della
grave mancanza nei tuoi confronti ma ormai era cosa fatta e mi
vergognavo troppo a smentire tutto. Più i giorni passavano,
però, e più il rimorso mi tormentava e così eccomi qui a
scriverti questa lettera per chiederti perdono. So quanto è
importante per te che la verità venga sempre detta.
Amato
John, se puoi dimentica il torto subito e di tutta questa
spiacevole vicenda ricorda solo che quanto è stato è stato fatto
perché ci manchi molto e desideriamo vederti e riabbracciarti
presto!
La
tua affezionatissima sorella Nora
P.S.
Qui ad accoglierti troverai anche il Principe di Galles!
Burton
richiuse la lettera e la restituì a Blackbone. I due uomini rimasero
in silenzio per qualche minuto sapendo entrambi che nessuno dei due
si era bevuto la storia dell’esaurimento nervoso di Nora. Per
Henriette poteva anche starci, ma Nora proprio no. Era una ragazza
con troppo carattere. Ora rimaneva da capire cosa fosse successo.
Passata
quella notte infernale Nora si riprese solo alle prime luci dell’alba
di due giorni dopo. Giovanna e Henriette l’avevano faticosamente
trascinata fino al suo letto e a turno controllavano che il suo sonno
fosse tranquillo.
Quando
riaprì gli occhi, Miss Blackbone vide il volto grassoccio e sudato
della cognata che ondeggiava immerso in un alone azzurrino. Tentò di
tirare il lenzuolo sopra la testa ma era debole e le braccia
ricaddero subito ai lati del corpo.
“Nora…Nora,
mi senti cara? Non sai che spavento ci hai fatto prendere...”
Henriette
come al solito piagnucolava quasi fosse lei ad aver subito il peggio.
Nora
cercò di mettere a fuoco la stanza e quando vi riuscì scorse anche
i nipoti. Philip e Isabel la osservavano seri e sembravano quelli di
sempre, un po’ tristi ma nel complesso tranquilli. Com’era
possibile dopo quello che era successo?
“Su,
bambini, la zia non è stata bene e ha sicuramente bisogno di
risposare. Andate a giocare in giardino.”
“No,
aspettate” riuscì a dire Nora, rendendosi conto che era davvero
stanchissima e ogni parola le costava uno sforzo.
“Insisto”
riprese Henriette “verranno a salutarti dopo. Ora sarebbe meglio se
tu provassi a mangiare qualcosa per rimetterti un po’ in forze.”
Nora
non aveva per niente fame ma capì che la cognata non aveva tutti i
torti.
“Va
bene. Vorrei della frutta.”
Improvvisamente
si ricordò del cane.
“Dov’è
Prince?”
Henriette
la guardò leggermente infastidita.
“Giù
in giardino. L’abbiamo dovuto legare perché si era inchiodato
vicino al tuo letto e non la smetteva più di lamentarsi. Sai quel
verso strano che fanno i cani? Se fosse rimasto qui non saremmo
riusciti a chiudere occhio stanotte e nemmeno la notte prima.”
“Piangeva”
mormorò Nora “Lo potete liberare per favore? Vorrei che venisse
qui a farmi compagnia.”
Mrs.
Blackbone si irrigidì. Quel diavolo di un cane non le stava
simpatico, non fosse altro che per lo spavento che le aveva fatto
prendere la sera che Nora si era sentita male, quando era sfrecciato
in casa come se avesse il demonio alle calcagna.
“Se
proprio non puoi farne a meno.”
“No,
non posso” rispose secca Nora e chiuse gli occhi.
Henriette
scese in giardino e ordinò a Giovanna di slegare l’animale. In
meno di un minuto Nora sentì Prince che zampettava fuori dalla sua
stanza. Lo chiamò e il cane si precipitò da lei. Nora lo accarezzò
e non poté fare a meno di cercare nelle pupille nere dell’animale
una sorta di conferma a ciò che entrambi avevano visto due sere
prima ma, come Henriette e i bambini, anche Prince non dava segni di
nervosismo. Eppure lei sapeva quello che aveva visto. E allora
perché? Perché sembrava che non fosse accaduto nulla?
Mrs.
Blackbone entrò con un vassoio.
“Eccomi
qui cara. Sforzati di mangiare almeno un po’ d’uva, coraggio.”
“Grazie,
lo farò. Però c’è una cosa urgente che devo chiederti
Henriette.”
“Dimmi
pure.”
Mrs.
Blackbone addirittura sorrise.
“Che
cosa è successo due sere fa? Voglio dire: io credo di saperlo, ma
dato che sono rimasta incosciente per quasi due giorni vorrei essere
sicura di ricordarmelo bene…”
Henriette
sospirò.
“Sei
inciampata mentre correvi su per le scale dietro a Prince a vedere
perché Giovanna urlava. Per inciso: Giovanna aveva gridato perché
quando stava chiudendo la finestra in camera di Isabel era entrato un
pipistrello che poi fortunatamente è uscito da solo… comunque,
dicevo, sei inciampata, sei caduta, hai battuto la testa e sei
svenuta. Trauma cranico, cara. Questo almeno è quello che ci ha
spiegato il dottor Schmitz. L’abbiamo chiamato, io e Giovanna,
perché tu non ne volevi proprio sapere di riprenderti.”
Henriette
ridacchiò.
“È
andata bene. Ti saresti potuta rompere l’osso del collo, cara.”
La
gola di Nora si chiuse e iniziarono a salirle le lacrime agli occhi.
Con grande fatica riuscì a chiedere se poteva parlare con Giovanna.
Lei era stata l’altra testimone oculare dell’orrore…
Henriette
annuì, contrariata dal fatto che sua cognata non volesse sapere come
lei e Giovanna fossero riuscite a gestire perfettamente la
situazione ma, evidentemente, Nora doveva essere ancora fuori
fase e così lasciò perdere. Scese da basso in cerca della
governante, la quale confermò la versione della botta in testa.
Rimasta
di nuovo sola, Nora chiuse gli occhi. Ad un certo punto il torpore la
colse e fu allora che la sua mente (o forse fu la sua anima) le venne
in aiuto.
Era
nella sua vecchia casa di Oxford. In quel periodo John era
giovanissimo e non ancora proiettato verso la carriera diplomatica
per seguire le orme del padre, John Blackbone senior, che da
anni serviva Sua maestà Britannica in India. Il rapporto con Mrs.
Blackbone non era dei migliori a causa del temperamento depresso
della signora che non perdeva occasione di riversare sui figli le
proprie angosce esistenziali dovute ai lunghi periodi di solitudine.
Se da un lato John, essendo il maggiore e per giunta maschio, godeva
di alcuni privilegi, dall’altro al ragazzino veniva richiesta
un’assunzione di responsabilità che non gli competeva, né per età
né per status. Era pur sempre il figlio di Mrs. Blackbone e non il
marito e questo non autorizzava la madre a soffocarlo e pretendere
che lui la accompagnasse ogni santa volta all’Opera o dal dottore,
dove si recava piuttosto spesso a causa dei suoi nervi fragili.
Una
sera John aveva davvero raggiunto il limite e lei, Nora, se ne era
accorta dal movimento nervoso della caviglia del fratello che, mentre
Mrs. Blackbone finiva una delle sue solite filippiche, non smetteva
di far ballare il piede e masticare a vuoto.
Quando
la scenata ebbe termine John chiese di potersi congedare e Nora,
temendo che la madre desse inizio al piagnisteo che di solito
seguiva, fece lo stesso. Asciugandosi la fronte imperlata di sudore e
chiedendosi che cosa avesse fatto di male per meritarsi dei figli
degeneri, Mrs. Blackbone acconsentì. I due fratelli salirono al
piano di sopra e John sussurrò a Nora di seguirlo nella sua stanza.
Si sedettero sul letto di John e…il sogno cambiò improvvisamente
ambientazione.
Nora
adesso si trovava nel giardino della residenza oxoniense. Mancavano
pochi giorni alla partenza di suo padre e lei stava seduta su una
panchina di marmo a leggere un libro. Sua madre e suo fratello erano
in città per alcune compere perciò in casa c’erano solo lei, la
governante e Mr. Blackbone. Era arrivata a metà del libro quando
aveva sentito un urlo. Spaventata, era corsa in direzione della
piccola serra che Mrs. Blackbone aveva fatto costruire nel lato sud
del giardino e, accostato l’orecchio, aveva riconosciuto la voce di
suo padre che parlava con la governante. Il tono era freddo,
innaturale per l’uomo che lei era abituata a conoscere.
“Nessuno
lo troverà mai e nessuno dovrà mai saperlo. Mia moglie e i miei
figli non potrebbero sopportare una cosa del genere. Io sto per
partire e tu ti troveresti in mezzo a una strada. Preferisci morire
di fame? La vita continua…”
La
donna piangeva. Si lamentava come un animale al quale hanno fatto
davvero molto male. Nora era pietrificata. Cosa c’era lì dentro?
Cosa avevano nascosto? Doveva essere una cosa brutta davvero per far
piangere Mary in quel modo. Sentì di nuovo la voce di suo padre e
smise di respirare.
“La
verità non dovrà mai venire a galla. Pensa che la morte di uno vale
la vita di tutti gli altri. Il bambino non avrebbe avuto nulla. Un
bastardo non ha futuro.”
A
quelle parole Nora si svegliò di colpo e capì. Capì che l’uomo
che aveva visto nello specchio, l’uomo fluttuante nel corridoio in
una nube giallastra era qualcuno che conosceva bene. Nora capì e
finalmente ricordò. Ricordò che dopo aver sentito suo padre
emettere quella sentenza aveva perso i sensi e quando si era
risvegliata, due giorni dopo (come sua madre le aveva raccontato) non
rimaneva traccia nella sua memoria né della serra né del terribile
segreto che Mary e suo padre tenevano nascosto tra le rose bianche
del giardino.
Il
mattino seguente Nora si alzò, si vestì e uscì insieme a Prince of
Wales per spedire un telegramma al fratello perché, una volta
riemerso dalle profondità della sua mente, quel mostro andava
neutralizzato e per farlo aveva bisogno di John.
Si
recò all’ufficio postale e condensò la sua angoscia nelle poche
righe ammesse da quel genere di messaggi. Mentre attraversava la
porta d’uscita verso il marciapiedi soleggiato, però, il lamento
di Mary e quello di Prince per un attimo risuonarono nelle sue
orecchie e le parvero insostenibili.
Rincasò
e la prima cosa che fece fu abbracciare i nipoti, la cognata e
Giovanna. La governante ne fu un po’ imbarazzata ma accettò di
buon grado quella manifestazione di affetto alla quale non sapeva
dare una spiegazione.
Calata
la sera Nora si ritirò in camera e scrisse una lettera al fratello.
Una lettera che avrebbe spedito solo una settimana più tardi, ma che
quando riuscì a imbucare, una volta fugati tutti i dubbi, la rese
sicura di aver fatto la cosa migliore per tutti. Mentre si spazzolava
i lunghi capelli neri si chiese se fosse davvero giusto dire sempre
la verità o se, per proteggere le persone che si amano nonostante
tutto e anche a costo di vivere con un peso enorme come aveva fatto
suo padre, alcuni segreti non dovessero mai venir svelati. D’altra
parte chi, se non lei, una ‘ragazza di carattere’, come la
definiva il Console, avrebbe potuto sopportare in silenzio un segreto
tanto orribile? Suo fratello stava già scontando una vita
prigioniera del fantasma di sua madre, sarebbe stato giusto gravarlo
di un’altra maledizione?
Era
sicura che John non avesse mai inteso cosa dormiva nel giardino dei
Blackbone e, se la forza non le fosse venuta meno, non lo avrebbe mai
saputo.
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