Questo racconto trae spunto dalle conversazioni su sir Richard Burton (famoso esploratore, poliglotta, nonché console britannico a Trieste dal 1870 al giorno della sua morte) fatte con Mick Walton e Riccardo Cepach e dall'osservazione di una casa particolare, sita nelle vicinanze dell'allora residenza consolare (attuale villa Economo, ex villa Gossleth), e probabilmente tuttora dimora dell'ultimo console onorario britannico.
La casa, ora in rovina, si trova in Vicolo delle ville (fra via Tigor e largo Promontorio) e qui vi ambiento la vicenda di Nora Blackbone, sorella del segretario del console sir Richard Burton, e della sua famiglia.
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Nora Blackbone sbarcò a Trieste nel giugno del 1870. Aveva lasciato Damasco dopo esserci vissuta per una decina d’anni insieme al fratello maggiore, segretario presso il consolato britannico, e alla di lui famiglia, composta dalla moglie francese Henriette d’Auvergne e due bambini di sette e cinque anni: Philip e Isabel.
John Blackbone aveva accettato di seguire in Europa il suo superiore, Sir Richard Francis Burton, sperando di rimettere piede in Inghilterra in capo a un paio d’anni e dare così ai propri figli quella che considerava un’educazione decente.
Nora, la moglie e i bambini precedettero John nel trasferimento con il compito di preparare la nuova casa e fu in quei sei mesi che alla donna si aprì il varco su un mondo che aspettava, silente, alle soglie della sua coscienza.
La nuova dimora triestina dei Blackbone era una villa a due piani dalle dimensioni contenute, ubicata tra la chiesa di Nostra Signora di Sion e Villa Gossleth, futura residenza del Console britannico. L’abitazione era cinta da una specie di terrapieno che andava calando in una stradina strettissima nella quale si trova anche l’accesso alla villa: un portone in legno massiccio si apriva su una scala di pietra che saliva al giardino, un piccolo gioiello invisibile dall’esterno grazie alla folta siepe di rosa selvatica e alle fronde degli alberi, due abeti e un ippocastano, che prolungavano il riparo offerto dal basamento tramite una cortina verde smeraldo così compatta da non lasciar uscire nemmeno la luce delle lampade.
Quando l’agente immobiliare consegnò le chiavi a Mrs. Blackbone e se ne andò, Nora si sedette accanto a Isabel su una panchina di marmo e, guardando le finestre spalancate e prive di tende al piano superiore, sospirò. La casa andava sicuramente pulita e il giardino, in particolare, aveva risentito dell’assenza di cure. Il mobilio di base c’era ma, in confronto alla sistemazione di Damasco, sembrava un albergo di terza classe: poca luce, nessun tappeto colorato, muri umidi e grigi, insomma, non c’era da stare allegri.
“La governante arriverà solo domattina, purtroppo. Per i pasti oggi ci dobbiamo arrangiare come capita. Bambini, avete fame?”
Henriette, ansimante, si tamponò la fronte sudata con un fazzoletto. Nel complesso era contenta e l’ombra del giardino la metteva ancor più di buon umore. Il caldo di Damasco e il suo sovrappeso l’avevano costretta per anni (almeno dalla nascita di Isabel) a rimanere chiusa in casa quasi tutto il giorno e quindi non era poi così dispiaciuta di trovarsi a una latitudine diversa.
“Sì mamma! Chiediamo a Youssef un sandwich di pollo?” rispose Philip saltellando fuori e dentro un’aiuola.
La donna lo guardò pensando che i bambini hanno davvero la straordinaria capacità di non dipendere dallo spazio e dal tempo. Philip era ancora convinto di poter contare sul loro domestico siriano, quasi bastasse nominarlo per farlo comparire con un vassoio di peltro pieno di frutta e panini.
“Tesoro, Youssef non è più il nostro aiutante. Ora siamo molto lontani da Damasco, ricordi?”
Il bambino si fermò a gambe divaricate con un piede nell’aiuola. Guardò Henriette con l’espressione sorniona che aveva quando capiva che sua madre stava scherzando.
Philip, contento che Henriette avesse una delle sue giornate buone perché diventava simpatica e questo non era in lei un comportamento tanto frequente, rispose: “Mamma, vi sbagliate, infatti l’ho appena visto alla finestra della mia camera.”
Mrs. Blackbone e Nora sollevarono lo sguardo in direzione del secondo piano. Le finestre erano aperte ma non c’era traccia né del domestico siriano né di nessun altro e questo era ovvio, perché non poteva esserci qualcuno al piano di sopra. C’erano solo loro in quella villa. Loro e basta.
“Philip lo sai che gli scherzi stupidi non mi piacciono. Io e tua zia ci siamo spaventate.”
Il buon umore pareva aver di nuovo abbandonato la mamma, constatò Philip rassegnato, ma allo stesso tempo forte del fatto che stava obbedendo a uno dei sacri comandamenti tramandati da suo padre e cioè che bisogna dire sempre la verità, anche a costo di venir puniti.
“Mi dispiace mamma, ma non era una bugia… lassù ho visto davvero qualcuno.”
“Philip smettila immediatamente con questo scherzo o finirai in castigo!”
La voce di Mrs. Blackbone si era fatta stridula e la donna, ormai preda del nervosismo, sudava copiosamente. Prima che l’alterco tra Henriette e il bambino desse inizio a uno scroscio di urla isteriche Nora decise di intervenire.
“Su, su, siamo tutti stanchi. Che ne dite di uscire da questo posto e andare a fare uno spuntino? Il cibo da queste parti si dice sia buonissimo.”
Isabel la abbracciò con gratitudine. Non sopportava sua madre quando alzava la voce in quel modo. Preferiva di gran lunga zia Nora, sempre così calma anche quando lei e suo fratello le combinavano, tanto che bastava un suo sguardo perché i bambini chiedessero scusa. Anche il papà non gridava e Isabel si domandava come mai la mamma, invece, fosse sempre così nervosa.
Philip, scuro in volto, si avvicinò a Nora e alla sorella. Che la mamma credesse pure quello che voleva, lui era sicuro di aver visto Youssef alla finestra e probabilmente al loro rientro l’uomo si sarebbe presentato come sempre ad accoglierli.
“Beh, visto che siete tutti d’accordo, voi Blackbone, non mi resta che adeguarmi. Andiamo a cercare qualcosa da mettere sotto i denti”, commentò sarcastica Henriette stringendo il fazzoletto umido in mano. In quei momenti, per altro estremamente frequenti, quando lei stava da una parte e loro dall’altra, la donna sentiva che i Blackbone erano una specie di entità a se stante, un clan nel quale non sarebbe mai potuta entrare. La separazione tra lei e loro era visibile anche nell’aspetto: entrambi i bambini assomigliavano a John e Nora stessa poteva sembrare non una semplice sorella, ma addirittura la gemella di suo marito. Tutti magri, con i capelli neri, gli occhi verdi e la pelle bianca come un lenzuolo. Tratti affilati e stomaci piatti. Nessuna traccia dei caratteri normanni dei d’Auvergne.
Mentre Mrs. Blackbone tamponava per l’ennesima volta la fronte sudata un cigolio e un colpo secco obbligarono tutti ad alzare nuovamente lo sguardo verso le finestre del piano superiore.
Gli scuri della camera da letto di Isabel erano chiusi. Non accostati a libro, quello l’avrebbe potuto fare facilmente anche un filo di vento (però, constatò Nora, l’aria del mezzogiorno era immobile), no, erano proprio chiusi. Le altre tre finestre invece rimanevano aperte.
Philip indirizzò immediatamente a sua madre un’occhiata di trionfo.
“Per favore Nora, sali tu a riaprire quella maledetta finestra? Sai che faccio fatica a fare le scale con il caldo…” piagnucolò Henriette. Non osava confessare nemmeno a se stessa di aver rabbrividito, forse più per il fastidio di doverla dar vinta a suo figlio che per la possibilità concreta che in casa ci fosse un intruso.
Nora si alzò e sorrise ai bambini.
“Ci metto due minuti e poi andiamo a mangiare, d’accordo?”
“Posso venire con te zia?”
Philip sorrise a sua volta, ignorando completamente il gesto di disappunto di Henriette.
“Phil, tesoro, faccio in un attimo. La scala è piena di polvere e sarebbe un guaio sporcarsi prima di andare a pranzo.”
Nora entrò in casa e i suoi occhi dovettero abituarsi al buio del vestibolo. Si fermò per qualche secondo prima di attraversare il salone immerso nell’oscurità, chiedendosi perché sua cognata non avesse spalancato la veranda. Forse temeva che ci entrasse qualche gatto dato che nella zona aveva visto parecchi randagi. Procedette a piccoli passi (alcuni bauli dovevano essere ancora da quelle parti e ci sarebbe potuta inciampare) e finalmente riuscì a scorgere l’attacco della scala che portava al piano superiore perché la luce passava dalle porte delle camere che non erano state chiuse, allo scopo di far circolare l’aria e mandar via la puzza di chiuso e umidità.
Fu allora che lo vide. Quando posò il piede sul primo scalino e nel suo campo visivo entrò lo specchio appeso alla parete sinistra, la sagoma giallastra di un uomo fluttuò nell’angolo della sala alla sua destra. Nora trasalì e, reagendo d’istinto, salì di corsa le scale, gettandosi nella stanza di Isabel.
Accidenti! Chi c’era laggiù? Se era un ladro, acquattato nel salone buio, probabilmente stava aspettando che loro uscissero per far bottino e filarsela indisturbato. Ma era davvero un ladro?
Mentre armeggiava con la maniglia degli scuri si ricordò perfettamente di quando li aveva aperti. Dunque, come era possibile che quelli si fossero chiusi da soli? Doveva essere stato il ladro… ma perché? Che senso aveva? Non ne aveva.
Forse quell’uomo (un ladro o magari un semplice vagabondo) era entrato prima del loro arrivo, pensando che la casa fosse incustodita. Poi però si era trovato in trappola e per non farsi scoprire aveva deciso di aspettare che se ne andassero. Questo filava però non risolveva l’enigma della finestra. Perché diavolo l’aveva chiusa rischiando di farsi scoprire? Il cervello di Nora continuò a cozzare contro quella domanda finché non ne sorse un’altra più pressante: cosa avrebbe dovuto fare? Se dalla finestra avesse tentato di far capire a Henriette che una presenza scomoda in casa c’era davvero la cognata sarebbe esplosa nel panico e questo probabilmente avrebbe indotto l’uomo a uscire allo scoperto per tentare la fuga. Troppo rischioso dal momento che c’erano i bambini. L’uomo, per quanto ne sapeva lei, avrebbe potuto tranquillamente possedere un’arma e se pure non fosse stato così, anche se numericamente superiori, erano comunque potenzialmente più vulnerabili. Considerato ciò, far finta di nulla pareva l’opzione migliore. Se fosse scesa senza lanciare l’allarme, pensò, non sarebbe successo alcunché di male.
“Noi ce ne andiamo per qualche ora, tu finisci il lavoro e sparisci, d’accordo?”
Nora sussurrò la sua proposta appena arrivata a metà della scala. Lo considerava uno scambio di favori più che equo: lui poteva prendersi quello che voleva ma in cambio doveva garantire la massima discrezione ed evitare nel modo più assoluto di spaventare Henriette e i bambini.
Una volta ritornata in giardino Nora tirò un sospiro di sollievo. Andarono a pranzo in una taverna del piccolo quartiere armeno e quando rientrarono, verso le tre del pomeriggio, non c’era traccia del visitatore e nulla era stato rubato.
(continua...)
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